TRADIZIONI POPOLARI
        Il teatro a Rieti
        Nei secoli del basso medioevo, le uniche forme 
          di teatro documentate a Rieti sono costituite dalle "sacre rappresentazioni", 
          quadri plastici a tema religioso rappresentati a cura delle Confraternite.
          Gli spettacoli si svolgevano all'aperto, sul sagrato delle chiese o 
          negli spazi pubblici ad esse adiacenti.
          Alla fine del XVI secolo, si costituì l'Accademia del Tizzone, 
          i cui membri coltivavano interessi letterari.
          L'Accademia ebbe sede presso il palazzetto dell'Ospedale di Santa Maria 
          della Misericordia: qui vennero inizialmente tenute letture pubbliche 
          di versi lirici, ma crescendo l'interesse verso l'arte drammatica, gli 
          accademici cominciarono dapprima a leggere, poi a rappresentare i testi 
          di commedie e tragedie, "per fuggire l'ozio, con oneste ricreazioni 
          per esercitare i giovani nelle virtù, e per comune allegrezza 
          del popolo", secondo quanto afferma un documento del 1601.
          La sala fu quindi dotata, fin dall'inizio del sec. XVII, di un palcoscenico 
          fisso, a cui nel 1724 il Consiglio Comunale deliberò di aggiungere 
          nuovi palchetti di legno.
          Successivamente, nel 1765 si deliberò la costruzione di un teatro 
          vero e proprio.
          Progettato e realizzato dall'architetto e pittore Giuseppe Viscardi, 
          il teatrino detto dei Condomini fu inaugurato nel 1768: la struttura, 
          interamente in legno, era costituita da tre ordini di palchi con un 
          loggione, aperti sul palcoscenico e poteva ospitare fino a settecento 
          spettatori.
          Il nome di Teatro dei Condomini derivò dalla messa in vendita 
          dei palchetti, a trenta scudi l'uno, per recuperare la spesa complessiva 
          di costruzione del teatro, che ammontava a 1380 scudi.
          Per oltre un secolo, la struttura del Teatro dei Condomini ebbe vita 
          intensa e decorosa per la qualità e la quantità degli 
          spettacoli che vi vennero offerti ad un pubblico selezionato e raffinato.
          Nel 1880, però, la legge dichiarò l'inagibilità 
          degli edifici pubblici costruiti in legno: due anni più tardi, 
          dunque, il teatro reatino cessò la sua attività.
          Già da tempo, si era sentita l'esigenza di dotare la città 
          di una struttura teatrale più ampia e si era costituita una società 
          di azionisti, la Compagnia dei Caratanti, che aveva però incontrato 
          varie difficoltà nell'individuare l'area più adatta alla 
          costruzione del nuovo teatro.
          Finalmente, fu attribuito l'incarico di progettazione del teatro all'architetto 
          Achille Sfondrini, che aveva già dato buona prova di sé 
          nella realizzazione del Teatro Costanzi a Roma.
          Il 16 dicembre 1883 fu posta solennemente la prima pietra del teatro, 
          che poté essere inaugurato dieci anni più tardi.
          La decorazione della cupola e dell'atrio fu affidata al pittore Giuseppe 
          Casa.
          Nel 1898, il terremoto colpì la città di Rieti lesionando 
          irrimediabilmente la cupola, che dovette essere consolidata ed affrescata 
          ex novo.
          Il compito fu affidato stavolta al pittore Giulio Rolland, mentre nel 
          1910 il reatino Antonino Calcagnadoro ebbe l'incarico di decorare il 
          foyer e di realizzare il sipario.
          
         
        Feste di popolo e solennità 
          religiose
        Le più antiche notizie riguardanti feste 
          di popolo e solennità religiose risalgono alla prima età 
          moderna, ma si riferiscono a tradizioni già consolidate in età 
          medievale: si tratta infatti delle "sacre rappresentazioni", 
          quadri plastici organizzati con un ricco apparato a cura di alcune delle 
          Confraternite reatine, in occasione di circostanze festive.
          Venivano messi in scena temi di natura religiosa, misteri e vite di 
          santi, curando l'allestimento di macchine teatrali e dotando i figuranti 
          di bei costumi, realizzati per l'occasione.
Le "sacre rappresentazioni" si svolgevano 
          all'aperto, sul sagrato della Cattedrale o nel pressi di altre chiese.
          I documenti danno notizia di alcune rappresentazioni particolarmente 
          apprezzate: nel 1576, la Fraternita di Santa Maria mise in scena in 
          pazza del Leone una rappresentazione del SS. Salvatore che richiamò 
          spettatori persino da Roma, nel 1582 rappresentò sul sagrato 
          della Cattedrale la Passione di Santa Barbara, nel 15 84 la Passione 
          di Cristo, molto apprezzata dallo stesso Vescovo; la Confraternita di 
          San Giorgio allestì negli stessi anni delle rappresentazioni 
          sui temi sacri dell'Ascensione e della Passione di San Giorgio e sul 
          tema storico della Distruzione di Gerusalemme; la Confraternita di Sant'Antonio 
          da Padova rappresentò L'Ascensione, la Confraternita di San Bernardino, 
          infine, mise in scena La passione di San Biagio.
          A questi spettacoli popolari, che corrispondevano agli intimi sentimenti 
          religiosi e non nascondevano intenti di edificazione morale si aggiungevano, 
          con grande concorso di pubblico, altre forme di spettacolo limitate 
          al periodo del Carnevale per la loro natura eminentemente ludica: si 
          tratta della caccia al toro e della corsa dei cavalli berberi detta 
          pure a vuoto o a nudo.
          Si trattava di giochi popolari, in cui si esaltava la destrezza degli 
          organizzatori e si apprezzava la forza bruta degli animali.
          Così Angelo Sacchetti Sassetti descrive lo spettacolo cruento 
          della caccia al toro : "alcuni uomini animosi trattenevano, 
          da lontano, con lunghe funi il toro infuriato, che naturalmente tentava 
          in tutti i modi di uscire dallo steccato; altri, non meno animosi, aizzavano, 
          da vicino, contro di esso uno o più cani. Se il cane era uno 
          solo, facilmente il toro con una cornata lo mandava a ruzzolare in mezzo 
          al campo. Se invece i cani erano due riuscivano ad azzannare contemporaneamente 
          le orecchie del toro, questo veniva immobilizzato e dichiarato vinto".
          La corsa dei cavalli berberi consisteva invece in una gara di cavalli 
          senza fantino, stimolati da pungoli legati sotto la pancia.
          I cavalli partivano dall'inizio del Corso e raggiungevano il traguardo 
          presso la chiesa di Sant'Agostino, oltre la quale avveniva la "ripresa", 
          che ha dato il nome alla via.
          La tradizione di questi spettacoli, tanto religiosi quanto profani, 
          durò fino a quando Rieti fece parte dello Stato Pontificio, cedendo 
          poi gradualmente ad altre forme di spettacolo.
          
         
        La tradizione orale:canti, stornelli, 
          proverbi
        La civiltà contadina ha elaborato e prodotto 
          per secoli una serie complessa di norme non scritte, regole e precetti 
          per la vita quotidiana, codici di comportamento per le occasioni più 
          rimarchevoli, che segnano l'esistenza del singolo inserendolo a pieno 
          titolo nella società, nella quale si riconosce e si legittima 
          come individuo.
          Si è trasmessa così, da una generazione all'altra, una 
          cultura non scritta, ma non per questo meno articolata ed organica della 
          cultura accademica.
          Le forme usuali di trasmissione della cultura che ha caratterizzato 
          per secoli la civiltà contadina sono quelle dell'oralità: 
          il racconto di storie edificanti e di novelle argute, il canto di lavoro, 
          lo stornello a dispetto, la serenata sono gli elementi che consentono 
          la cristallizzazione degli elementi narrativi ed insieme danno l'opportunità 
          di esprimere la personale abilità di affabulazione, rinnovando 
          e rivitalizzando la stessa tradizione.
          Così la cultura popolare ha tradotto in forme schiette ed essenziali 
          ì propri sentimenti, ha espresso in sintesi un codice di regole 
          servendosi in primo luogo del dialetto.
          Il dialetto reatino è parte integrante dei dialetti dell'area 
          mediana di derivazione tardo-latina, che presentano spiccate caratteristiche 
          fonetiche (riguardanti cioè la pronuncia), in particolare riguardanti 
          i suoni -e ed -o, che tendono a modificare il suono aperto in un suono 
          chiuso.
          Le parole sono frequentemente tronche, come accade per i verbi usati 
          all'infinito o per le forme vocative dei nomi, tanto propri che comuni.
Il troncamento non avviene soltanto in fine di 
          parola, come è nella lingua italiana, ma si verifica frequentemente 
          anche al principio, perdendo la prima lettera (indifferentemente, vocale 
          o consonante) della sillaba iniziale.
          Di frequente, si verifica il raddoppiamento delle consonanti, che a 
          volte risultano invece scempie, cioè sdoppiate, rispetto all'italiano.
          Alcuni raddoppiamenti sono invece solo apparenti, in quanto le consonanti 
          -in ed -n tendono ad assimilarsi alle altre consonanti ( ad esempio, 
          -b -p -d -v).
          Il suono -gl tende a trasformarsi in j.
          A queste caratteristiche fonetiche, sommariamente accennate, si uniscono 
          particolarità grammaticali e strutturali significative, che testimoniano 
          la peculiare lentezza di trasformazione che il dialetto presenta rispetto 
          alla lingua: il dialetto risulta essere infatti conservativo di caratteri 
          morfologici e sintattici appartenenti alla lingua latina, testimoniati 
          dal volgare delle origini (secc. XII-XIII).
          Ancor più significativa è la ricerca delle elaborazioni 
          lessicali prodotte dal dialetto, tanto da motivare la sistematica indagine 
          condotta dal Dipartimento di Culture Comparate dell'Università 
          dell'Aquila per realizzare il Vocabolario dei Dialetti della Sabina 
          e dell'Aquilano.
          La cultura popolare, che trova i suoi essenziali canali di comunicazione 
          nella comunicazione orale e nel ricorso al dialetto, informa di sé 
          la cultura accademica quando si fa, soprattutto nelle forme della poesia 
          e della drammatizzazione, mezzo di espressione dei sentimenti che sono 
          patrimonio comune di una collettività ed appartengono all'esperienza 
          di ciascuno, a prescindere dallo status sociale e dal grado di erudizione.
          E' questo il caso del poeta Loreto Mattei, colto e raffinato interprete 
          della cultura del Seicento ed insieme arguto poeta dialettale.
          
         
        Il carnevale
        Occasione di festa per eccellenza, il Carnevale 
          reatino non si discosta dalle forme di una tradizione popolare diffusa 
          in tutta l'Italia centroappenninica, pur assumendo alcune caratteristiche 
          specifiche, che restarono in uso fin nel XIX secolo.
          I festeggiamenti carnevaleschi erano inaugurati il 17 gennaio di ogni 
          anno, con la solennità religiosa di Sant'Antonio Abate: sul sagrato 
          della chiesa dedicata al santo venivano benedetti i cavalli, che poi 
          sfilavano in corteo lungo le vie della città.
          Dal 1824, fu introdotto per vivacizzare la festa il gioco del Gallinaccio, 
          una sorta di cruento torneo che consisteva nel prendere al galoppo un 
          pollo sospeso ad una fune, tesa attraverso il Corso.
          Giochi, gare e balli popolari erano il pretesto per mascherarsi e, a 
          volte, la maschera offriva l'occasione per vendicarsi delle offese subite: 
          per questo, le autorità cittadine non si limitavano ad emanare 
          ordinanze, ma esercitavano rigorosi controlli per contenere prevedibili 
          episodi di violenza.
          Le maschere erano tollerate dal 17 gennaio fino al martedì grasso, 
          escludendo però le giornate di venerdì, di domenica e 
          le feste religiose più importanti, come la Purificazione.
          Durante il periodo carnevalesco, s'infittivano i cortei di giovani mascherati, 
          che cantavano di rasa in casa gli stornelli scherzosi della Pasquarella, 
          raccogliendo cibo e bevande.
          Non è difficile riconoscere in questi comportamenti collettivi 
          la traccia degli antichi rituali propiziatori della fertilità 
          dei campi, così come i ricordi adombrati degli avvenimenti storici 
          di un passato remoto animarono gli scontri figurati, veri e propri balli 
          rituali, delle moresche.
          Gli animatori delle feste carnevalesche, mascherati da zanni, con casacche 
          che li rendevano irriconoscibili, si dividevano in due schiere, di turchi 
          o di sbirri e cristiani, intrecciando danze ritmate, incrociando le 
          spade e cantando stornelli secondo rituali che cambiavano di paese in 
          paese, da Contigliano a Castel di Tora, da Paganico ai vari centri del 
          Cicolano.
In alcuni di questi luoghi erano diffuse le rappresentazioni 
          dei dodici mesi dell'anno, anch'esse retaggio della tradizione agraria, 
          o le cacce all'urzu o all' omo sarvaticu, che veniva catturato ed ucciso 
          in piazza per poi rinascere sotto forma umana o civilizzata.
          L'allegria sfrenata, sconfinante nella violenza, tipica del carnevale 
          lasciava poi spazio ai riti penitenziali della Quaresima, culminanti 
          nelle Scurite della Settimana Santa.
          Anche in questo caso, si organizzavano cortei di musicanti che raccoglievano 
          la questua: si trattava però dei membri della Confraternita di 
          Santa Maria del Suffragio o di altre congregazioni, che percorrevano 
          incappucciati le vie cittadine al suono lamentoso delle raganelle, "cantando 
          ( ... ) le laudi dell'anime purganti ( ... ) per avere qualche llemosina 
          dai fedeli".
          
          
        Le Confraternite
        Fin dal medioevo, anche la città di Rieti 
          vide moltiplicarsi le istituzioni delle Confraternite, legate alle Corporazioni 
          delle Arti, promosse dalle congregazioni religiose.
          Queste associazioni laicali assolsero a funzioni diverse, costituendo 
          a lungo un cardine della vita cittadina.
          In particolare, le Confraternite nate come supporto delle Corporazioni 
          uniscono mediante vincoli di natura religiosa i membri di una medesima 
          categoria di lavoratori, che si pongono sotto la protezione della Madonna 
          e dei Santi, legati in virtù della propria vicenda agiogratica 
          ad uno specifico ambito di attività.
          Così, ad esempio, i falegnami si riuniscono nella confraternita 
          di San Giuseppe, istituita nel 1619 dal cardinale Crescenzi, gli ortolani 
          devoti alla Madonna costruiscono a loro spese fuori porta Conca la chiesa 
          ed il romitorio di Santa Maria dell'Orto, consacrata nel 175 3 da monsignor 
          Gabriele Ferretti, imitati nel 1815 dai contadini della Confraternita 
          della Madonna del Cuore.
          Ma già da qualche secolo erano state costituite confraternite 
          poste sotto la tutela degli Ordini Mendicanti, come la ricca Compagnia 
          di San Pietro Martire che radunava i mercanti reatini nel segno del 
          santo Domenicano che intorno alla metà del XIII secolo a Firenze 
          aveva concesso le onorificenze della crux cismarina ai pii rappresentanti 
          della borghesia locale, o la Compagnia di San Bernardino, attiva presso 
          San Francesco fin dal 1463.
          Le congregazioni che univano lavoratori appartenenti ad una stessa Arte 
          provvedevano ad organizzare interventi dì mutua assistenza, assicurando 
          ad esempio alle vedove di poter mantenere la bottega finché i 
          figli non fossero stati in grado di provvedere a riprendere l'attività 
          di famiglia o sostenendo in caso di disgrazia o malattia le spese a 
          cui il singolo individuo non avrebbe potuto far fronte.
          Altre Confraternite si occupavano di dare conforto agli ammalati, ai 
          pellegrini, ai carcerati, e gestivano direttamente o indirettamente 
          ospedali e fondi: avvenne così per l'ospedale di San Leonardo, 
          che decadde e fu sostituito nelle sue funzioni di assistenza spirituale 
          dalla Confraternita di Santa Maria del Suffragio, per l'ospedale di 
          Santa Maria della Scala che fu associato alla Congregazione della Madonna 
          del Popolo o per l'ospedale di Sant'Antonio abate, che fu retto fino 
          al XVI secolo dalla Compagnia del SS. Sacramento, a cui subentrarono 
          successivamente i Buonfratelli di S. Giovanni di Dio ed infine i Padri 
          di san Camillo de' Lellis.
          Presso l'antica chiesa di San Giorgio, eretta in prossimità del 
          patibolo, si riunì la confraternita associata alla congregazione 
          romana di San Giovanni Decollato, il cui compito era portare conforto 
          ai condannati a morte.
          Per celebrare cristianamente le esequie e commemorare i defunti fu istituita 
          la Compagnia della Buona Morte, ì cui membri prestavano la loro 
          pietosa opera mantenendo il più rigoroso anonimato.
          Per scongiurare il pericolo delle pestilenze, furono istituite nel XVII 
          secolo due confraternite, l'una intitolata a San Vincenzo Ferreri, l'altra 
          alla beata Colomba da Rieti.
Presso numerose chiese, furono invece istituiti 
          gruppi di preghiera, come la Confraternita della Pietà che si 
          riuniva in San Ruffo o la Confraternita del SS. Rosario attiva per secoli 
          in San Domenico.
          Per secoli, dunque, le confraternite seppero unire intenti religiosi 
          ed assistenza sociale, garantendo la crescita civile della società 
          di antico regime.
          
         
        La cucina della festa, l'alimentazione 
          quotidiana
        La cucina tradizionale, a Rieti come altrove, 
          è legata alle risorse alimentari locali, dal momento che le tecniche 
          di conservazione ed il commercio di derrate a lunga distanza sono innovazioni 
          dei tempi moderni.
          Dunque, l'eredità portata dalla cultura materiale sabina alla 
          sfarzosa cucina romana caratterizzata da gusti forti e da mescolanze 
          estreme si limita essenzialmente ai cereali ed alle granaglie che hanno 
          però una straordinaria importanza per la vita quotidiana della 
          plebs e per l'approvvigionamento dell'esercito.
          Il cibo fondamentale delle truppe romane è costituito infatti 
          dalla focaccia di farro, un cereale oggi tornato di moda, che ha la 
          caratteristica di crescere nelle zone montane appenniniche.
          Questo antico, diffusissimo alimento è alla base del tradizionale 
          rito del matrimonio celebrato mediante la confarreatio, la condivisione 
          simbolica di uno stesso pane di cui si cibano gli sposi alla presenza 
          di parenti e testimoni.
          Non meno importante è l'approvvigionamento di carni salate, dalla 
          Sabina a Roma: il reciproco, vantaggioso scambio fra le saline di Ostia 
          e le regioni montane dell'interno è attestato dal nome assunto 
          dalla consolare Salarla, che collega Reate alla capitale.
          La civiltà contadina evolve lentamente, anche riguardo alle abitudini 
          alimentari.
          Se il pasto dei giorni comuni è semplice, spesso consumato direttamente 
          sui campi, portato da casa dentro agli ampi fazzoletti legati a leacciòla, 
          il pranzo della festa solennizza le circostanze liete con un'abbondanza 
          di portate che vuole allontanare lo spettro della carestia, deprecare 
          la miseria.
          Particolarmente ricco e vario è il pasto tradizionale della Pasqua, 
          legato ad antichi culti propiziatori del rinnovamento della vita e della 
          produzione.
          Oltre alle uova, lesse o elaborate in frittate alle erbe, all'agnello, 
          arrosto, in fricassea, con l'uovo, utilizzato fino alle coratelle cucinate 
          con i carciofi, al coniglio salmistrato, si mangiano paste e timballi, 
          minestre primaverili come l'acquacotta, delicate verdure di stagione.
          A questi cibi che arricchiscono la tavola si aggiungono i dolci tradizionali, 
          le pizze pasquali preparate durante la Settimana Santa e benedette dal 
          prete.
          La cucina nazionale acquisisce dalla tradizione culinaria sabina alcuni 
          piatti particolarmente gustosi, come i bucatini all'amatriciana, con 
          il guanciale, il pomodoro e il formaggio pecorino, semplici nell'armonia 
          degli ingredienti, poveri come le fregnacce, pasta sfoglia tirata con 
          sola acqua e farina, condita con sugo di aglio, olio e pomodoro.
          Nelle zone montane, dove più attiva è stata la caccia, 
          la cucina ha saputo elaborare ricchi piatti utilizzando le carni di 
          pernici, fagiani, lepri e cinghiali, come condimento di polente e maccheroni 
          fatti a mano o come stufati ed arrosti.
          Le zone lacustri e fluviali hanno prodotto invece una cucina esperta 
          nel trattare i pesci d'acqua dolce, le tinche, le carpe, i coregoni.
          Ovunque, resta la tradizione dei salumi, per cui si utilizzano al meglio 
          tutte le parti del maiale.